Il monologo di Francini e due storie: «Il figlio che non arrivava, l'ossessione, il viaggio, il miracolo». «Ho detto no, per un motivo» (2023)

di Alessandra Bravi e Chiara Dino

Essere madre, o non essere madre? Un bivio che torna alla ribalta pubblica dopo il monologo di Chiara Francini dal palco del Festival di Sanremo. Due testimonianze: chi ha scelto di mettere al mondo un figlio e chi ha detto di no, senza mai pentirsene

Il monologo di Francini e due storie: «Il figlio che non arrivava, l'ossessione, il viaggio, il miracolo». «Ho detto no, per un motivo» (1)

Mamma o non mamma. Ci voleva una fiorentina di Campi Bisenzio, un’attrice comica e sfrontata — «sono profana» dice lei di se stessa— per dire l’indicibile. Per parlare di maternità: se sia giusta o sbagliata, se sì o se no. E comunque a che prezzo. Se e come affrontarla. Ci voleva Chiara Francini che, nella quarta Camera del Paese, dopo le due istituzionali e la terza che è Porta a Porta di Vespa, sul palco dell’Ariston ha condiviso con tutti quello che ogni donna pensa ma che non osa dire, se non sottovoce e in contesti privati se non privatissimi o addirittura sul lettino di uno psicanalista. È obbligatorio avere dei figli? È normale, se non vuoi averne, sentirti sbagliata? È accettabile, se invece li vuoi ma non riesci ad averne — e magari ci tenti da anni senza alcun risultato — provare rabbia, invidia, forse anche odio per la tua amica del cuore che un giorno ti gorgheggia estasiata: «Sono incinta?». E tu vorresti risponderle solo: «Sparisci». La questione non è da poco e lo si è visto dal profluvio dei commenti che da subito hanno intasato la rete coi suoi social dopo il monologo di venerdì sera dell’attrice campigiana, fatto con indosso il suo vestito a cuori e accanto un passeggino. Ieri nel tardo pomeriggio lei commentava: «Grazie a tutti voi che mi avete fatta sentire giusta. È stato un giorno, un Sanremo speciale Questo monologo significa molto per me. E scoprire che mi avete vista e compresa è tanto bello. Sapere che non siamo soli è tanto bello». Ha avuto coraggio. Si è messa in gioco. E così lo abbiamo fatto anche noi. Con due testimonianze del tutto vere. Identiche nell’intensità e nel senso, opposte nell’esito che ha portato nelle nostre vite. Due testimonianze e un appello. Non trasformiamo in performance sociale un fatto talmente importante e privato.

L’ansia, il desiderio e quello stereotipo che la società esige

(Alessandra Bravi) Il mio primo figlio, Pietro, è nato nel 2013. Da quasi due anni io e il mio compagno cercavamo di avere un bambino, che non ne voleva sapere di arrivare. Le mie amiche restavano incinta e sì, le donne in gravidanza sanno spesso essere egoiste, schiacciano le altre con la loro gioia. La mia amica è stata Ottavia: «Ora te lo posso dire, sono incinta!» e tu che fai? Abbracci, gioisci, ridi, chiedi. Ma dentro la odi. E poi ti senti in colpa per quello che stai provando.

Inizia così il senso di smarrimento delle donne che vogliono un figlio ma non ci riescono. Il mio, almeno, è iniziato così. Poi è continuato con i mille test fatti e rifatti perché «sbagliano, io lo sento questo bambino», con le processioni dal ginecologo, la temperatura basale, il sesso che ha un solo obiettivo: procreare. L’ossessione è quasi tutta della donna. Il mio compagno mi era vicino e cercava di riportarmi alla razionalità: «Facciamo tutto quello che dobbiamo ma non lo trasformiamo in una malattia». Niente, la malattia ti entra in testa. Fu proprio il ginecologo a svegliarmi: «Non puoi avere figli, facciamo passare qualche mese e poi iniziamo le terapie ormonali».

Io e il mio compagno partimmo per un viaggio, mi rilassai, mi tranquillizzai, ripresi a fare l’amore, per l’amore. Quando tornammo, ero incinta. E il medico gridò al miracolo. Fu una gravidanza bella e serena. Il mio corpo cambiava e io con lui: la pancia che cresce, il seno che aumenta, la pelle che si opacizza. La stanchezza alle sei del pomeriggio, il sorriso appena ti svegli la mattina, i calci del bambino che ti tranquillizzano perché vuol dire che è ancora lì. E pure io ero diventata egoista, parlavo solo di Pietro. E poi Pietro è nato, a marzo del 2013, pochi giorni prima si era dimesso il Papa. Pensai: «Che anno pazzesco figlio mio». Durante quei nove mesi non ho mai pensato che forse non avrei potuta essere adatta al ruolo di madre, che avrei perso l’autonomia, la possibilità di far carriera nel mio giornale, che sarei stata investita, insieme al mio compagno, da una responsabilità senza pari. Dopo le prime contrazioni andammo in ospedale, ridevo, ero felice. Il parto fu lungo e difficile, Pietro nacque con un cesareo d’urgenza. Ero completamente stordita dai farmaci, me lo misero addosso e lo sentii, io avrei voluto solo che qualcuno me lo portasse via.

Non mi ero ancora ripresa che le ostetriche cominciarono a dirmi di attaccarlo al seno, che era necessario il colostro per fargli prendere peso. Pietro aveva fame, piangeva e dal mio seno non usciva niente. Uscì poco per i primi tre giorni di ospedale ma quel poco bastò a farlo crescere. E con la crescita diventava sempre più vorace. Non avevo latte, chiedevo alle ostetriche il biberon, non mi fu dato mai. Il mio compagno riusciva a calmare il bambino, io no.

Quando tornammo a casa il copione fu identico. Mi salvò il pediatra e col latte artificiale le cose migliorarono. Ma non il mio senso di inadeguatezza, che diventava sempre più forte. Pietro neonato mi portò via il sonno, mi donò le lacrime e una fiducia totale nell’uomo che avevo accanto. Sconfiggere il senso di colpa per il mio essere madre senza sentirlo fu la cosa più difficile da superare in quei primi mesi. Non puoi dirlo a nessuno, la società esige la mamma perfetta. E non è un luogo comune. Fu però Pietro a insegnarmi a conoscerlo e amarlo, piano piano. Fu lui a placare la mia ansia e a trasformarla in accudimento, non il resto del mondo che esige, ancora, lo stereotipo.

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(Chiara Dino) Anno di grazia 1998: non ho ancora compiuto trent’anni. Sono già giornalista, anche se per il momento precaria. Vivo con un compagno che migliore non potrebbe essere. Mi adora, mi protegge, mi sprona a fare strada nella professione che amo. Arriva il giorno fatidico in cui la frase non detta aleggia per casa. «Facciamo un figlio? Se lo vuoi — dice lui — io sono qui. Avremo una babysitter. Continuerai a lavorare».Dentro di me è buio e tremori. Sì, no, sì, ci penso. Un passo avanti e due indietro. Quando l’idea comincia a prendere corpo dentro di me è la tempesta. Mi manca l’aria, penso di avere un malanno ai polmoni. Consulto un medico che mi tranquillizza: «Si chiama dispnea, è psicosomatica».Il fatto è che io l’idea di qualcuno che cresca abbarbicato tra le mie viscere non riesco a concepirla davvero. Lo penso e penso di dover accogliere un alieno. Qualcuno che mangia, dorme, cresce, lascia le sue scorie dentro la mia pancia è ai limiti della follia. Mi faccio coraggio e mi dico: dura poco sono solo nove mesi e poi passa tutto. Lui sarà fuori, sarà altro da te. E poi sarete in due a stargli vicino. Poi passa? No, poi inizia la guerra. Quella contro di me prima di ogni altra cosa. Sarò brava? Sarà sereno? Sarò quella giusta per lui? È tutto troppo: quando, con la mia immaginazione, lo vedo neonato il dubbio diventa certezza.

Non è un’impresa alla mia portata. Non posso assicurare a questa creatura l’infanzia serena che augurerei a qualunque bambino. Non posso promettergli che non perderò la pazienza, che sarò tollerante e accogliente e anche giusta e severa. Che saprò prevenire le sue lacrime ed evitargli tutto il male del mondo. Vorrei che dormisse sereno, che non avesse le coliche, che gli crescessero i denti senza provare fastidio. Le malattie esantematiche vorrei che le prendesse tutte, a patto però che fossero asintomatiche. Vorrei che la scuola la prendesse di tacco, che fosse amato dai suoi compagni, stimato dai prof, coccolato dai bidelli. Vorrei che non avesse il motorino ma che non si sentisse menomato per questo. Vorrei che il primo amore della sua vita fosse quello giusto e per sempre. Vorrei che facesse il lavoro dei sogni. Vorrei l’impossibile anche per me. Sono solo un’egoista che sogna un pargolo che non le dia alcun problema o sono la donna più buona e accudente del mondo?

La domanda che mi pongo è sterile. Lo so.Dunque piango, tremo ancora, mi dispero. Faccio tutto da sola. Poi, solo quando sono pronta per il verdetto finale, lo condivido col compagno di allora. La mia risposta è no. Senza appello. Mi sono pentita? No, ho fatto la cosa giusta. Solo non avrei mai voluto rispondere alle mille persone che, negli anni, quando ancora il mio corpo avrebbe potuto concepire un bambino, mi chiedevano. «Figli nei hai? Ne farai? Ne desideri?». A lui, al mio compagno, non lo chiedeva mai nessuno. A me continuamente. Non lo hanno fatte solo le mie tre amiche di sempre, che pure di figli ne hanno fatti: chi uno, chi due. Non a caso sono ancora nella mia vita.Delle cose di cui non si può parlare bisogna tacere, diceva il filosofo. Delle emozioni personali e profonde non si parla se non in luoghi protetti. Non chiedere a una donna se e perché ha fatto o non fatto un figlio è questione di educazione. Educazione sentimentale, per usare ancora una volta la citazione di qualcuno più grande di me.

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12 febbraio 2023 ( modifica il 12 febbraio 2023 | 19:32)

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Author: Greg Kuvalis

Last Updated: 03/05/2023

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